28 jul 2011

Per una polizia democratica

“Facciamo un’ipotesi assurda: il Movimento Studentesco prende il potere in Italia. Pragmaticamente, certo: senza averlo preventivato: per puro impeto o ardore ideologico, per puro idealismo giovanile ecc. ecc. Bisogna «agire prima di pensare»: dunque... agendo può succedere tutto. Bene. Il Movimento Studentesco è al potere: essere al potere significa disporre degli strumenti del potere. Il più vistoso, spettacolare e persuasivo strumento del potere è la polizia. Il Movimento Studentesco, quindi, si troverebbe a disporre della polizia.

Cosa ne farebbe? La abolirebbe? In tal caso, è chiaro, perderebbe immediatamente il potere. Ma continuiamo con la nostra ipotesi assurda: il Movimento Studentesco, visto che il potere ce l’ha, vuol conservarlo: e ciò al fine di cambiare, finalmente!, la struttura della società. Poiché il potere è sempre di destra, il Movimento Studentesco, dunque, per raggiungere il superiore fine consistente della «rivoluzione strutturale», accetterebbe un provvisorio regime - assembleare, non-parlamentare, sia pure - di destra, e quindi, fra l’altro, dovrebbe decidere di tenere a sua disposizione la polizia.

In questa ipotesi assurda, come il lettore vede, tutto cambia, e si presenta sotto forma miracolosa, direi inebbriante. Una sola cosa non cambia affatto, e resta quella che è: la polizia.
Perché ho fatto questa ipotesi folle?

Ecco: la polizia è l’unico luogo in cui nessun estremista potrebbe oggettivamente criticare la necessità di una «riforma»: a proposito della polizia non si può essere che riformisti.

Ad Avola, cos'ha fatto il Potere (il Potere attuale: quello della democrazia borghese, parlamentare centralissima)? Ha causato quattro vittime.

Attraverso un vecchio spirito di carità (che viene però a coincidere con un'attualissima esigenza di democrazia reale), io non saprei dire se sono più infelici i due morti o i due poliziotti che hanno sparato.

Ragioniamo un momento: come ha creato, il Potere, i due morti? Discriminando i cittadini in cittadini privilegiati e in cittadini non privilegiati. Creando della «carne umana» dal prezzo alto e della «carne umana» dal prezzo basso.

Essere: 1) siciliano (appartenente cioè a una area preindustriale e preistorica), 2) bracciante (appartenente cioè alla più povera delle categorie povere dei lavoratori), significa essere un uomo dal corpo senza valore. Che si può ammazzare senza troppi scrupoli (la polizia tanto per dirne una, ne ha fatte di tutti i colori contro gli studenti, carne umana di valore medio abbastanza alto, ma non ha mai sparato contro di loro).

E come ha creato, lo stesso Potere, i due sicari? È semplice: prendendo due di quegli uomini «di basso costo» (meridionali, potenziali braccianti) e trasformandoli da «poveri» in «sicari» (per far ciò, al Potere basta elargire uno stipendio di quarantamila lire mensili).

Come fa il Potere a trasformare i poveri in strumenti inconsapevoli? (È una operazione facile: infatti l'innocenza dei poveri è, perché naturale, indifesa; ed è attraverso questa «innocenza» - incoscienza politica - che il Potere, in centri di addestramento, dopo avere allettato alcuni tra i poveri col sogno delle quarantamila lire, crea dei riflessi condizionati: che sono qualcosa di molto diverso da una educazione: e assomigliano molto di più a un addestramento di automi che di uomini. Ai poveri «innocenti» si contrappongono così gli stessi poveri facilmente «corrotti». È una ben nota tecnica fascista, quella di far leva sulle masse sottoproletarie.)

Mi si dirà: ma tu parti dal presupposto che i due poliziotti che hanno sparato siano del tutto pari, nell'origine sociale e nella «cultura», ai due morti. Sì - rispondo - parto del presupposto che rappresenta meglio la media condizione dei poliziotti. È vero che fisicamente, a sparare e ad ammazzare possono essere stati due vecchi poliziotti, provenienti da disgraziati, atrocemente incolti, ceti medi; ma è questa che sarebbe l'eccezione: è questo che sarebbe l'intervento «diretto» del Potere, e che non rappresenterebbe così la tipicità del intervento «indiretto», consistente nell'opporre poveri a poveri, innocenti a innocenti. Ambedue «segnati», direi, razzialmente.

L'eccidio di Avola è diventato ora il pretesto per chiedere una «riforma» della polizia: consistente, intanto, in un primo radicale provvedimento: quello di disarmarla.

Non è che una riforma: e come tale, la sua esigenza è sentita anche dalla parte illuminata del Potere attuale. Io penso che anche la parte più avanzata ed estremistica, dovrebbe appoggiare l'immediata attuazione di questa riforma.

Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della «falsa idea di sé» che il Potere gli ha dato, addestrandolo comò un automa.

Da tale «mutazione» psicologica deriverebbe, sempre «oggettivamente», e forse nella coscienza stessa del poliziotto, la necessità di altre riforme: nascerebbe cioè, nel poliziotto «disarmato», una nuova consapevolezza dei propri diritti civili. Ed egli stesso sarebbe il primo a pretendere un nuovo tipo di «addestramento professionale», che non approfitti, così brutalmente, della sua innocenza e della sua povertà. Attraverso tale coscienza egli diventerebbe un poliziotto socialdemocratico, appunto, anziché fascista. Che non è poco. A meno che non si vogliano strumentalizzare i morti provocati dalla polizia: il che però metterebbe gli oppositori del Potere allo stesso livello di disumanità del Potere."


Pier Paolo Pasolini, Per una polizia democratica (1968),
en Saggi sulla politica e sulla società (1999), Milano: Mondadori.

Para una policía democrática (Pier Paolo Pasolini, 1968, fragmento)

"Planteémonos una hipótesis absurda; el Movimiento Estudiantil toma el poder en Italia. Pragmáticamente claro: sin haberlo presupuesto: por puro ímpetu o ardor ideológico, por estricto idealismo juvenil, etc., etc. Es preciso "actuar antes que pensar": por consiguiente... con la acción se puede conseguir todo. Bien. El Movimiento Estudiantil está en el poder: ser el poder significa disponer de los mecanismos del poder. El más vistoso, espectacular y persuasivo aparato del poder es la policía. El Movimiento Estudiantil, por tanto, se encuentra con que dispone de la policía.

¿Qué haría en tal caso? Si la aboliera, claro está, perdería automáticamente el poder. Pero prosigamos con nuestra hipótesis absurda: el Movimiento Estudiantil, dado que tiene el poder, quiere conservarlo: y ello siempre con el objetivo de cambiar, ¡por fin!, la estructura de la sociedad. Puesto que el poder es siempre de derechas, el Movimiento Estudiantil, pues, para obtener ese fin superior consistente en la "revolución estructural", aceptaría un régimen provisional - asambleario, no parlamentario, en última instancia - de derechas, y en consecuencia, entre otras cosas tendría que decidirse a mantener a la policía a su disposición.

En esta absurda hipótesis, como verá el lector, todo cambia y se presenta bajo un cariz milagroso, embriagador, diría yo. Sin embargo, hay algo que no ha cambiado y que se ha mantenido como era - la policía.

¿Por qué he planteado esta hipótesis insensata?

Porque la policía es el único punto del que ningún extremista podría censurar objetivamente la necesidad de una "reforma": en lo tocante a la policía no se puede ser más que reformista".

Pier Paolo Pasolini, "Per una polizia democratica", en Tempo, N. 52, Año XXX, 21 de diciembre de 1968 (reproducido en Pier Paolo Pasolini: El Caos. Contra el Terror, Barcelona: Crítica, 1981, pp.107-108)

1 feb 2011

Orlando, el furioso

¿Cuántos presos necesita la Argentina?

¡Qué pregunta para el primer post de este blog! Escapa a toda lógica, incluso al más llano sentido común, que una sociedad “necesite” presos. Pareciera más razonable interrogarse sobre la necesidad o utilidad del castigo o sobre su real incidencia en la prevención del delito y la violencia. Preguntas – a diferencia de cuanto pueda suponerse – que no tienen respuestas obvias.

Sin embargo, al momento de decidir qué hacer con la cuestión de la inseguridad urbana, buena parte de los políticos – temerosos de los medios u oportunistas – se limitan a abordar el “problema” sin apartarse del estrecho margen de la política criminal que, en concreto, no es sino la decisión política acerca de cuántos presos son “necesarios”. Desde ya, esto nada tiene que ver con una preocupación y atención seria a la problemática de la inseguridad y del delito. Por lo general, estas decisiones tienen lugar en momentos de emergencia punitiva, un particular hecho social – esporádico, pero que se repite con frecuencia cada vez mayor – en el que se combinan y retroalimentan la acción de los medios, el oportunismo político y la ansiedad social; y que se traduce en reformas normativas que generan superpoblación y hacinamiento en las cárceles, lo que a su vez es causa de una serie de violaciones a los derechos humanos, que van desde el agravamiento de las condiciones de detención hasta torturas y ejecuciones encubiertas. Por supuesto, en nada contribuyen a solucionar la problemática del delito o a disminuir la preocupación de la sociedad al respecto.

Hace algunas semanas, el economista Orlando Ferreres publicó en el diario La Nación una columna de opinión que no merece el menor análisis criminológico, pues su falta de rigor la refuta por sí sola. Sin embargo, si nos detenemos un instante a analizar el razonamiento de Ferreres, en seguida nos damos cuenta de que “nos hace ruido” por lo burdo y rudimentario de su análisis, pero que, en cuanto al fondo de la cuestión, no dista demasiado del discurso mediático dominante y del de un buen número de políticos. Ferreres, luego de juzgar que “la inseguridad es actualmente el principal problema de la Argentina”, afirma que “ha existido un aumento importante de la población, pero no creció en igual medida la represión del delito”. De este modo, comparando el índice de encarcelamiento de nuestro país con el de los Estados Unidos, llega a la conclusión de que la Argentina necesita más presos, puesto que “andarían sueltos unos 250.000 delincuentes”.

Dejemos de lado la curiosa alquimia demográfica que emplea Ferreres. Estados Unidos – que concentra menos del 5 por ciento de la población mundial pero un cuarto de los presos de todo el planeta – es también el país industrializado con mayor índice de homicidios. Las cárceles de los Estados Unidos, por otra parte, no están llenas de homicidas, violadores o asesinos seriales como los de las series que nos venden, sino de delincuentes bagatelares, consumidores de estupefacientes y reincidentes de pequeñas infracciones. Con más de 700 personas presas por cada 100.000 habitantes, tiene el índice de encarcelamiento más alto del mundo: si se considera solamente a los adultos, 1 de cada 10 estadounidenses está preso. De los cuales, una gran mayoría son negros y pobres.

No escapa al economista que el sistema de encierro de los Estados Unidos es económicamente insostenible para nuestro país, pero curiosamente afirma que la sociedad “estaría dispuesta a pagar el costo económico” de vivir con menos temor. De ese modo, sostiene, el Estado absorbería muchos costos que hoy en día asume el sector privado, como los gastos en seguridad privada de las empresas o de los barrios cerrados. La conclusión, entonces, es que habría que construir más cárceles. Son muchos los motivos que se oponen a esto, quizás la ineficacia preventiva de la prisión sea el de mayor peso. Pero lo cierto es, además, que un sistema de encierro como el norteamericano es impracticable en sociedades como las nuestras, en razón de sus elevadísimos costos. Por ello, visto que no resulta posible neutralizar a un número tan vasto de personas como el que se pretendería, se promueve una “incapacitación selectiva”, que encuentra hoy en los jóvenes su blanco predilecto. El Estado, ausente en todo momento, aparece en sus vidas tarde y con el garrote.

La situación carcelaria en nuestro país es crítica, como lo revelan los informes de los principales organismos de derechos humanos, nacionales e internacionales. En diez años la población carcelaria argentina aumentó más del doble, no precisamente al ritmo de los delitos. Más del 60% de los presos de nuestro país aún no han sido condenados, y muchos de ellos serán declarados inocentes. Esta cifra es mucho mayor en la provincia de Buenos Aires, donde todavía se sienten las nefastas consecuencias de las reformas procesales del ex gobernador Carlos Ruckauf, que en diez años triplicaron la población penitenciaria. No suele estar entre las preocupaciones de los políticos y, por esta razón, es imperioso que alguien – desde el poder – se haga cargo del problema carcelario.
Los jueces, antes de enviar una persona a la prisión, deberían cerciorarse de poder hacerlo sin vulnerar ningún derecho más allá de la libertad del condenado. Es su obligación como garantes de la vigencia de la Constitución nacional.

Es de esperar que quienes aspiran a cargos electivos en el año en curso, no caigan en la tentación oportunista de manipular los legítimos intereses de seguridad y protección estatal de la ciudadanía, ofreciendo “soluciones mágicas”. En particular, es imprescindible que tomen conciencia del alto riesgo que corren los jóvenes de clases bajas, víctimas de una sociedad excluyente que, además, ya los ha estereotipado. En días recientes, una vez más, se ha instalado en la opinión pública la cuestión de la “edad de imputabilidad”. Estos reclamos ignoran la incidencia real de los delitos cometidos por menores (en el orden del 4% en la provincia de Buenos Aires). Es de esperar, también, que a diferencia de lo sucedido en otras oportunidades, si en algún momento emanara del parlamento alguna respuesta demagógica de corte punitivo, el gobierno nacional vetara esas normas.

Conclusiones como las de Osvaldo Ferreres, o proyectos de disminución de la edad de punibilidad, entre otras improvisaciones, son sólo posibles ante la falta de datos fidedignos sobre el delito, carencia que favorece la manipulación de la opinión pública. Por ello, es imprescindible la aprobación del proyecto de creación del Observatorio del Delito y la Violencia. El gobierno de la Ciudad, por su parte, debe reglamentar la ley 2.593 (¡de 2007!) que creó el Sistema de Información para la Prevención Comunitaria del Delito y la Violencia, y realizar las encuestas de victimización anuales establecidas por la Legislatura porteña. Sin conocer el fenómeno sobre el que se pretende actuar se corre el riesgo de promover “soluciones” que sean parte del problema o, incluso, la causa de nuevas y mayores tragedias.